“Questo non è un film”, insiste un produttore fasullo all’inizio del mockumentary “Grave Encounters”, l’ultima truffa found-footage e il debutto alla regia di Colin Minihan e Stuart Ortiz, altrimenti noti come i Vicious Brothers. Nel momento in cui questo clunker derivativo schizza verso la fine, molti del pubblico potrebbero trovarsi d’accordo con lui.
Seguendo la troupe di un reality show a caccia di fantasmi mentre indaga su un ospedale psichiatrico chiuso nella campagna del Maryland (interpretato da un ex ospedale di Vancouver, British Columbia), la storia si sviluppa in video grezzi scoperti dopo che la troupe è scomparsa. Guidati dal conduttore dello show (Sean Rogerson), un imbroglione profondamente cinico, assistiamo al posizionamento delle telecamere e alla sistemazione della squadra per un isolamento di otto ore. Uno storico locale ci ha già informato del passato macabro dell’ospedale – compreso l’accoltellamento di un medico felice di lobotomia da parte di detenuti in rivolta – quindi siamo pronti ad essere pietrificati.
Quello che otteniamo, tuttavia, è una serie di lievi brividi troppo incoerenti per fondare la narrazione e troppo formulaici per spaventare. Le porte si aprono e le forme scivolano nell’oscurità; il cibo marcisce e il sole non riesce a sorgere, il più delle volte accompagnato da ululati ultraterreni e da una luce lampeggiante che provoca mal di testa. Come una malvagia Hogwarts, l’edificio fa spostare le scale e i corridoi in cerchio, un’idea intrigante che non è mai adeguatamente sfruttata.
Seguendo le orme del “Blair Witch Project” e della serie “Paranormal Activity”, i registi sembrano inconsapevoli che stanno battendo un cavallo morto. Mentre i personaggi uniformemente fastidiosi inciampano, urlando e imprecando, non ci importa un fico secco della loro sopravvivenza. Al contrario: stiamo contando i minuti fino a quando gli abitanti fantasma del manicomio li metteranno a tacere per sempre.