Caratteristiche del periodo
Il fallimento dell’imperatore Hohenstaufen Federico II e dei suoi successori re di Sicilia di dominare l’Italia nel corso del XIII secolo lasciò la penisola divisa tra un gran numero di unità politiche effettivamente indipendenti. L’incapacità dei governanti d’oltralpe di imporre la loro autorità su di essa fu chiaramente e definitivamente dimostrata dalla spedizione (1310-13) di Enrico di Lussemburgo, incoronato imperatore Enrico VII. Un idealista che credeva di avere, come vicario secolare di Dio, la missione divina di riportare la pace nel “giardino dell’Impero”, Enrico entrò in Italia nel 1310 con il consenso di Papa Clemente V (1305-14) e sembrò inizialmente prosperare. Cercò, come un onesto mediatore, di riconciliare le fazioni guelfe (cioè pro-papale) e ghibelline (cioè pro-imperiali), ma fu presto evidente che ogni tentativo di scavalcare queste vecchie lealtà comportava un massiccio assalto allo status quo politico, una rivoluzione che sarebbe stata ferocemente contrastata. Firenze, in particolare, si opponeva non solo a qualsiasi concessione ai suoi nemici, ma a qualsiasi ripristino del potere imperiale.
In queste circostanze Enrico fu sempre più spinto ad allearsi esclusivamente con gli oppositori dei guelfi e divenne egli stesso solo un leader di una fazione. Di conseguenza, sia il papato che il re Roberto di Napoli, che inizialmente avevano favorito la sua venuta nella penisola, tornarono alla loro tradizionale posizione anti-imperiale. Il sogno di pace per fiat imperiale si dissolse, ed Enrico passò alla guerra, ma la sua morte per febbre a Buonconvento, vicino a Siena, nell’agosto 1313 spezzò per sempre le speranze degli imperialisti. I successivi imperatori che intervennero dal nord – Luigi IV (il Bavaro; 1327-30) e Carlo IV di Boemia (1354-55, 1368-69) – arrivarono con obiettivi molto più limitati, non come monarchi universali ma come attori di breve durata sulla scena italiana, cercando lì guadagni limitati come il prestigio dell’incoronazione imperiale a Roma. Per quanto questi imperatori mantenessero le loro pretese formali de jure, qualsiasi autorità centrale imperiale in Italia era scomparsa. Al suo posto c’era un complesso, spesso caotico raggruppamento di molte potenze rivali le cui ostilità e alleanze riempiono, con dettagli stancanti, le pagine dei cronisti contemporanei.
Questa disunione politica andava di pari passo con altre divisioni in una penisola che manifestava forti differenze regionali nel clima, nella formazione del territorio, nello sviluppo economico, nei costumi e nella lingua. (Un cronista del XIII secolo elogia un contemporaneo come abile linguista per la sua fluidità in “francese, lombardo e toscano”. Non c’era una lingua letteraria comune prima di Dante – e allora solo in versi, non in prosa). Queste diversità molto pronunciate hanno portato molti commentatori ad escludere qualsiasi tentativo di costruire una storia generale unificata dell’Italia in questo periodo e ad insistere che una sintesi coerente deve essere basata sulle sue parti costitutive. Per questi autori, l’unica vera storia consisterà in resoconti separati delle sei maggiori potenze – Sicilia, Napoli, Stato Pontificio, Firenze, Milano e Venezia – insieme a quelli di circa 15-20 potenze minori – come Mantova, Montferrat, Lucca e Siena – che erano sparse tra loro. (Questo ignora il caso ambiguo di Genova, estremamente potente economicamente ma pietosamente debole politicamente).
C’è molto in queste contestazioni. Sarebbe imprudente sminuire il travolgente spirito di campanilismo (patriottismo locale; lo spirito del “il nostro campanile è più alto del vostro”) durante i secoli XIV e XV. Solo una minoranza degli abitanti dell’epoca poteva aver sentito la parola “Italia”, e la lealtà era prevalentemente provinciale. È vero che tra alcune classi, come i mercanti che viaggiavano oltre le Alpi o gli studiosi che guardavano con nostalgia alle glorie repubblicane o imperiali romane, sopravvivevano alcuni elementi di coscienza nazionale. Dante – cercando nel suo De vulgari eloquentia (scritto nel 1304-07; “Sull’eloquenza del vernacolo”) di trovare, in mezzo a quelli che descrisse come “mille dialetti diversi”, “l’inafferrabile pantera” di una qualche base per una comune lingua letteraria vernacolare – sostenne che c’erano alcune “norme molto semplici di maniere, abiti e discorsi con cui le nostre azioni come italiani sono pesate e misurate”. Per quanto vaga possa apparire questa affermazione, si possono certamente vedere nella penisola alcuni elementi che, presi insieme, facevano un forte contrasto con il mondo d’oltralpe: una comune cultura giuridica, alti livelli di istruzione laica e di alfabetizzazione urbana, una stretta relazione tra città e campagna, e una nobiltà che spesso si impegnava nel commercio.
Ma alla fine si deve concludere che l’interesse o l’importanza di questo periodo scaturisce soprattutto non da considerazioni “nazionali” o da riflessioni sulla penisola italiana come unità, ma piuttosto da tre caratteristiche particolari che appaiono in almeno alcune parti di esso. In primo luogo c’era la maturazione, spesso di fronte a severe sfide, del notevole sviluppo economico che aveva avuto origine nei secoli precedenti. Sebbene scossi nel corso del XIV secolo, il commercio, la manifattura e il capitalismo mercantile dell’Italia settentrionale e centrale, insieme alla crescente urbanizzazione, dovevano continuare con straordinario vigore e avere una notevole influenza su gran parte del mondo mediterraneo e sull’Europa nel suo insieme – uno sviluppo che servì come necessario preliminare all’espansione dell’Europa oltre i suoi antichi confini alla fine del XV secolo. In secondo luogo, parallelamente a questo, arrivò l’estensione di città-stato de facto indipendenti, che, sia come repubbliche o come poteri governati da una sola persona o famiglia (signorie, singolare signoria; governate da signori, o signori), crearono una potente impressione sui contemporanei e sui posteri. Infine, alleata di entrambi questi movimenti fu questa società che produsse la civiltà del Rinascimento italiano, il Rinascimento che nei secoli XV e XVI si sarebbe diffuso nel resto d’Europa.